«Io sono l’ultimo intellettuale ebreo. Non ne conosco altri. Tutti i vostri altri intellettuali ebrei oggigiorno sono dei gretti signorotti di provincia. Da Amos Oz a tutti questi qui in America. Dunque sono l’ultimo. L’unico vero continuatore di Adorno. Mettiamola così: sono un ebreo-palestinese» (Said 2007: 47-48). Così si conclude l’intervista rilasciata da Edward Said ad Ari Shavit nel 2000: nel segno di un altro esule come Adorno, certo, ma soprattutto con un richiamo più che simbolico a quell’idea di coesistenza, di convivenza pacifica e necessaria tra popoli, che ha contrassegnato le riflessioni dell’intellettuale arabo intorno al tema dell’esilio e alla questione israelo-palestinese. Uno sguardo, quello di Said, dominato dal tentativo difficile, eppure cruciale, di assumere in sé l’identità dell’altro, di lasciarsi arricchire dall’incontro e dal riconoscimento di ciò che appare come diverso. Senza sottovalutare, sia ben chiaro, la logica dei rapporti di dominazione, integralmente costruita sull’interesse economico e politico. Proporre la coesistenza, dunque, ha rappresentato, almeno fino agli eventi di Oslo, la possibilità di creare una base comune di appartenenza, una sorta di terreno unitario entro cui far reagire dialetticamente le differenze. Non sfugge quanto tale proposta politica sia ancorata alle convinzioni filosofiche di Said. Perché, a partire da quel classico della letteratura postcoloniale che è Orientalismo (1978, trad. it. 1980), per non retrocedere fino alla tesi di laurea su Conrad (1966, trad. it. 2008a), e passando per le decine di saggi che egli ha dedicato allo studio della cultura, della società, della critica, la sua indagine ha tematizzato la possibilità di leggere la realtà come un enorme contrappunto di voci differenti, che sta alla comprensione, all’atto del conoscere, armonizzare, secondo una metafora musicale pregnante e cara a Said (peraltro, musicista dilettante e musicologo “adorniano”).Così come si può stabilire un terreno comune d’azione, così come la realtà è irrefutabilmente unica e totale davanti ai nostri occhi, allo stesso modo si può agire su tale irriducibile identità per affermare le differenze che la compongono, quella pluralità di punti di vista che contribuisce a rendere dialettica la realtà stessa e il nostro tentativo di afferrarla con la ragione. Said mutua, in qualche modo, questa visione contrappuntistica della realtà dalla sua esperienza di critico letterario, consapevole di trovarsi sempre di fronte a un testo – unico, totale, concluso, finito – che, al di là della sua imprescindibile materialità, evoca una complessità infinita di letture, di punti di vista differenti. In quest’ottica, la letteratura (e l’arte tutta) acquisisce mirabilmente una funzione pedagogica: invita a osservare come sia possibile, all’interno di un universo, la ricca coesistenza di diversità, prospettive, traiettorie gnoseologiche. È piuttosto l’utopia blochiana di un “multiverso” o, più semplicemente, il paradigma musicale di un’unità che sia rispettosa, attraverso le leggi dell’armonia, del canto di una singola voce (non è un caso l’interesse di Said per Bach e per il suo interprete più intellettualmente dotato, nonché volontario ed eccentrico esule, Glenn Gould) a esemplificare l’idea speranzosa di una pace possibile fra i popoli.Ha sempre colpito di Said l’estrema coerenza filosofica e politica. E dunque, dati i presupposti di pensiero, non sarà difficile interpretare sue affermazioni di questo tipo: «Quella che si desidera, pertanto, è un’idea di coesistenza che sia rispettosa delle differenze tra ebrei e palestinesi, ma che sia anche rispettosa verso la storia comune della diversa lotta e della diversa sopravvivenza che li lega. […] La questione fondamentale è che le esperienze di ebrei e palestinesi sono storicamente e organicamente legate fra loro. Volerle tenere separate significa falsificare ciò che vi è di autentico in ciascuno di esse. Affinché possa esservi un futuro comune noi dobbiamo pensare le nostre storie legate fra loro, per quanto difficile la cosa possa apparire. E quel futuro dovrà comprendere arabi ed ebrei, insieme, liberi da ogni progetto tendente all’esclusione […]» (1998: 97 e 99). Avendo in comune un destino storico di sofferenza, i due popoli devono, per Said, trovare un equilibrio che li renda consapevoli della reciproca e dialettica identità. Si tratta di una politica che esclude, da una parte e dall’altra, il fantasma del fondamentalismo e di un lavoro collettivo che trova la sua ragione d’essere nella mediazione. È nel dialogo sulla musica che il critico palestinese ha intrecciato con la voce dell’israeliano Daniel Barenboim – componendo, di fatto, un contrappunto intellettuale esemplare – che si possono leggere chiaramente le preoccupazioni di chi vede nel reciproco rispetto l’unico antidoto al radicalismo oltranzista e all’essenzialismo: «La storia – dice Said – è un fenomeno dinamico e se ci aspettiamo che gli ebrei israeliani non usino l’Olocausto per giustificare le spaventose violazioni dei diritti umani del popolo palestinese, anche noi dobbiamo superare idiozie come quella di sostenere che l’Olocausto non è mai avvenuto e che gli israeliani sono tutti, uomini, donne e bambini, condannati alla nostra imperitura inimicizia e ostilità» (Said-Barenboim 2004: 155).È convinzione di Said che la possibilità di esprimere liberamente punti di vista differenti rispetto all’ideologia acquisita e imperante nasca dall’alternativa offerta dalla condizione dell’esule. Chi vive lo sradicamento, chi si sente sempre nel posto sbagliato, chi non possiede una casa stabile, sconta sì una difficoltà oggettiva, ma può mutare quest’ultima nella pratica di un’alternativa, nella consapevolezza, cioè, della vanità apparente di ciò che è pensato come definitivo e unico. Appartiene all’esule l’intuito della molteplicità. Fuori da qualsiasi ordine, egli incarna l’illusione dell’onnipervasività del potere: ne mostra l’impossibile realizzazione totalitaria, attraverso l’affermazione, seppure singolare, di una prospettiva differente e demistificante; ne smaschera l’insopprimibile istinto a ridurre in silenzio la subalternità. L’esule è colui il quale, testimoniando una vita fuori dall’ordine, reca su di sé la voce di chi, andando, come voleva Benjamin, a ritroso, è stato dimenticato dalla storia ufficiale.
Nel libro che conclude la trilogia Homo sacer, dedicato al campo di concentramento come luogo emblematico della biopolitica e del controllo sui corpi, Giorgio Agamben, attraverso le pagine di Primo Levi, esprime la paradossale condizione del testimone. Posto che la possibilità di testimoniare è accordata solo ai sopravvissuti, e che questi sono chiamati a testimoniare per coloro che non avrebbero potuto farlo, o per chi, come il “musulmano”, ha subito una posizione di decentramento tale da sprofondare nella non-soggettività, dunque nella non-esistenza, allora la testimonianza testimonia, per delega, «una testimonianza mancante» (Agamben 1998: 32). Il non-uomo – il musulmano, colui che è giunto, ad Auschwitz, a toccare in vita l’inumanità, a confondere la vita nella morte – è il testimone integrale, è la figura che dimostra «la possibilità di un non-uomo che si presenta ostinatamente come uomo» (49). Come si configura, pertanto, la situazione del testimone non integrale che si pone l’obiettivo di testimoniare per chi sarebbe più adatto a farlo? Nella testimonianza, nota Agamben, «il non-uomo e l’uomo entrano in una zona d’indistinzione in cui è impossibile assegnare la posizione di soggetto […]. Ciò si può anche esprimere dicendo che soggetto della testimonianza è quello che testimonia di una desogettivazione» (112). Attraverso l’individuazione di questa zona grigia in cui la stessa testimonianza invera ciò che non è umano dal punto di vista dell’umano, Auschwitz viene irrefutabilmente provato come tale: non è possibile alcuna ipotesi negazionista. Con le parole di Agamben: «Sia, infatti, Auschwitz, ciò di cui non è possibile testimoniare; e sia, insieme, il musulmano come assoluta impossibilità di testimoniare. Se il testimone testimonia per il musulmano, se egli riesce a portare alla parola l’impossibilità di parlare – se, cioè, il musulmano è costituito come testimone integrale – allora il negazionismo è confutato nel suo stesso fondamento. Nel musulmano, l’impossibilità di testimoniare non è più, infatti, una semplice privazione, ma è divenuta reale, esiste come tale. Se il superstite testimonia non della camera a gas o di Auschwitz, ma per il musulmano, se egli parla a partire da una impossibilità di parlare, allora la sua testimonianza non può essere negata. Auschwitz – ciò di cui non è possibile testimoniare – è assolutamente e irrefutabilmente provato» (153). Esistendo l’impossibilità di testimoniare, e assumendone cioè l’irremovibile realtà, non si può negare la possibilità di testimoniare per gli assenti: è questa, in altri termini, la missione intellettuale del testimone.Non sfugge che a testimoniare, pertanto, sia colui il quale, esiliato nel campo di Auschwitz e sopravvissuto alla pratica mortale dell’esilio, allo sradicamento orrido della deportazione, parla a nome di un tipo di esiliato differente, una sorta di esiliato nell’esilio stesso, di deprivato della vita, la cui condizione è scongiurata da chi, già nelle sue stesse condizioni di partenza, non ne sopporta la futura e possibile identificazione. Il deportato, pertanto, testimonia l’esilio, testimonia per chi non può avere voce e, parlandone, ne appura l’esistenza.
La figura di intellettuale cui Said aspira è, in qualche misura, quella del testimone. Quando egli afferma di non avere «alcun dubbio nel ritenere che l’intellettuale debba schierarsi dalla parte dei deboli, di quanti non hanno alcuna rappresentanza» (Said 1995: 36), prospetta sì un impegno politico di difesa delle subalternità, ma si riferisce prioritariamente a chi, nel conflitto delle identità, sconta l’impossibilità di poter testimoniare perché la sua voce si perde nel tumulto delle bombe, delle atrocità, delle armi. L’esiliato diviene, pertanto, una sorta di privilegiato che ha orrore della sua possibilità di testimoniare: se da un lato, egli testimonia in quanto outsider, per il fatto di aver raggiunto un’autorità attraverso il privilegio dell’educazione (e della vita), dall’altro, egli assume di sé la vergogna di non vivere il conflitto sulla pelle, se non attraverso il ricordo o il perenne sradicamento. L’esule incarna la contraddizione di dover assumere sulla sua pelle la voce di chi, rimasto a casa, è esule nella sua stessa terra.È un nuovo umanesimo, nella prospettiva della coesistenza, a rappresentare, per Said, l’unico mezzo del testimone-intellettuale. Quest’ultimo, una volta raggiunta l’autorità di poter esprimere un punto di vista differente, è chiamato a mantenere la sua integrità, senza compromettersi con quel potere che, invisibile e scaltro, riuscirebbe ad assorbirlo e a neutralizzare la contraddizione viva nella sua stessa voce discorde. In tal senso, egli «non è né un pacificatore né un artefice di consenso, bensì qualcuno che ha scommesso tutta la sua esistenza sul senso critico, la consapevolezza di non essere disposto ad accettare le formule facili, i modelli prefabbricati, le conferme acquiescenti e compiacenti di ciò che i potenti o i benpensanti hanno da dire e di ciò che poi fanno». Pertanto, «la speranza dell’intellettuale non è di esercitare la sua influenza sul mondo bensì che un giorno, in qualche luogo, qualcuno legga ciò che egli ha scritto esattamente nel modo in cui lo ha scritto» (37 e 68). Testimoniare nel segno dell’esilio significa, pertanto, aprire una voragine nell’apparente calma del potere: aprire all’essere tutto ciò che la storia ufficiale nega. E se ciò non è possibile nell’immediato, lo sarà in futuro, in virtù dell’esistenza di un punto di vista differente che viene, attraverso la scrittura e l’impegno, appunto testimoniato. Per concludere, così Said descrive, in una delle pagine più nitide, la sua collocazione di critico, esule e testimone nella realtà del suo tempo: «Esiste […] l’alternativa del silenzio, dell’esilio, dell’autocoscienza, del ritiro in se stessi, della solitudine, o quella a me più congeniale – per quanto profondamente frammentata e probabilmente troppo marginale – che appartiene a determinati intellettuali la cui vocazione è di dire la verità al potere, di rifiutare ogni discorso ufficiale, ogni forma di ortodossia e di autorità, e di vivere nell’ironia e nello scetticismo, confrontandosi col linguaggio dei media, dei governi, del dissenso per restituire la testimonianza silente di un’esperienza soffocata e di una sofferenza vissuta sulla pelle. Non esiste suono né articolazione di voce che si rivelino adeguati a ciò che il potere e l’ingiustizia del mondo infliggono al povero, allo svantaggiato, al diseredato. Solo approssimazioni, mai rappresentazioni: che hanno l’effetto di interpuntare il discorso con il disincanto e la demistificazione. Ed è già qualcosa» (2008b: 579).
Marco Gatto
Bibliografia citata
Giorgio Agamben, 1998: Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri.
Edward W. Said, 1980: Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Milano, Feltrinelli.
Idem, 1995: Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Milano, Feltrinelli.
Idem, 1998: Tra guerra e pace. Ritorno in Palestina-Israele, Milano, Feltrinelli.
Idem, 2008a: Joseph Conrad e la finzione autobiografica, Milano, il Saggiatore.
Idem, 2008b: Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Milano, Feltrinelli.
Idem, 2007: Il mio diritto al ritorno. Intervista con Ari Shavit, “Ha’retz Magazine”, Tel Aviv 2000, Roma, nottetempo.
Edward Said-Daniel Barenboim 2004, Paralleli e paradossi. Pensieri sulla musica, la politica e la società, Milano, Il Saggiatore.