domenica 25 gennaio 2009

VEDERE L'ALTRO RASSEGNA FOTOGRAFICA



Università della Calabria, La Giornata della Memoria per la fotografia d'arte
"Vedere l'Altro"

Sulla base di un'attenta visione del materiale pervenuto, il comitato scientifico di "Vedere l'Altro" informa sui modi, tempi e luoghi della rassegna.
Gli appuntamenti sono tre.

Il primo appuntamento è il 26 gennaio, alle ore 18.30, nel Teatro Piccolo dell'Università della Calabria. Le fotografie verranno mostrate - in formato digitale - all'interno di un'installazione video musicale di Ivano Morrone, docente presso il Conservatorio Giacomantonio di Cosenza. Il titolo dell'opera si chiama "Cartoline Ferramonti. Vedere l'Altro". Nella circostanza Tonino Sicoli e Giorgio Reda terranno una presentazione.

Il secondo appuntamento è il 27 gennaio, alle ore 9.00, nell'Aula Magna dell'Università della Calabria. Le fotografie, riunite in una video presentazione digitale a cura di Federica Piraino, verranno mostrate lungo tutto l'arco del convegno "Toccare, vedere, sentire: comprendere l'Altro". Contestualmente verrà distribuito a titolo gratuito un cd ad edizione limitata, con all'interno la stessa presentazione e le foto, riunite in cartelle per singolo autore.

Il terzo appuntamento è il 28 gennaio, alle ore 10.00, presso il campo di concentramento Ferramonti a Tarsia. Le fotografie, sempre in video proiezione, saranno mostrate in un'apposita sala, dove rimarranno nei giorni successivi. Per ogni visita successiva, singola o di gruppo, gli autori possono prendere accordi con Francesco Panebianco o con Damiano Vuono, responsabili della gestione del campo.
Nel frattempo il comitato scientifico avrà scelto tre fotografie - sottolineiamo tre e non più una soltanto, come da bando. A Ferramonti si terrà una cerimonia di premiazione, presieduta da Anna Foa e dai toni rigorosamente informali. A seguire le tre selezionate verranno scoperte e da allora entreranno stabilmente nel patrimonio del Museo.

Il comitato scientifico
Paolo Coen, Fabio De Chirico, Francesco Panebianco, Francesca Rota, Tonino Sicoli

GIORNATA DELLA MEMORIA 2009 PROGRAMMA UFFICIALE

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MARGHERITA GANERI, "GUERRA E' SEMPRE". PRIMO LEVI E IL LAGER COME METAFORA ESTREMA DEL MONDO CONTEMPORANEO


Margherita Ganeri (Università della Calabria)
«Guerra è sempre!». Primo Levi e il Lager come metafora estrema del mondo contemporaneo.
Lezione preparatoria alla Giornata della MemoriaUniversità della Calabria, 14 gennaio 2009.


Nell’aprile del 1986 Primo Levi pubblica I sommersi e i salvati, in cui il ricordo della propria prigionia nel campo di concentramento di Auschwitz si congiunge, nella percezione distanziante del gap temporale che lo separa dall’esperienza vissuta, con una riflessione generale sul significato del Lager per la storia contemporanea, oltre che sul senso del reinserimento dei superstiti nel mondo successivo a Auschwitz. Chi sono i sommersi e chi sono i salvati? I sommersi sono, ovviamente, coloro che nel Lager hanno perso la vita, mentre i salvati sono i reduci. Anch’essi, però, non sono salvi, perché per loro il Lager continua ad esistere come realtà incancellabile del ricordo, e quindi come dimensione costantemente presente, seppure nascosta, alla percezione del mondo. Il Lager è l’equivalente rovesciato di ciò che si percepisce in superficie, e che può anche non apparire malvagio, e anzi, mendacemente, sembrare buono e positivo. Dietro la rimozione del male, la realtà sommersa del Lager, che i salvati conoscono, è l’unica reale e vera, e rappresenta la sola verità contro ogni illusione e oblio.Nel toccante finale de La tregua, che richiama la poesia posta in esergo, il Lager riaffiora nei sogni dei superstiti come una dimensione che, per contrasto, fa loro percepire la vita diurna come un sogno, un’illusione, una finzione. Il richiamo della sveglia all’alba, che ogni prigioniero teme, e insieme - solo in sogno? - quasi desidera, in un dantesco grigiore indefinito, in un’invincibile e quasi soprannaturale solitudine, è terribile perché toglie ogni illusione, ma proprio per questo va vista principalmente come una metafora della condizione esistenziale umana. Se il Lager è per Levi un luogo-laboratorio nel quale si sperimenta quasi scientificamente, in condizioni estreme, la lotta per la vita, e nel quale si scarnifica l’essenza stessa dell’uomo, perché essa si dimostra semplice e inutile superfetazione rispetto ai soli istinti biologici elementari, il Lager è anche «il fondo», l’ombra magnetica che catalizza, alla fine, nel suo paradossale e diabolico estremismo, le forze negative latenti e sempre in azione nel cosiddetto mondo civile. Per questo il Lager, come scrive Levi, è collocato al termine di una catena che parte da ogni minima prevaricazione o discriminazione, razziale o di altro tipo. È il capolinea sempre raggiungibile e sempre a rischio di essere raggiunto dalle società moderne. Il messaggio che ne possiamo trarre è che, una volta compresa questa correlazione, dal Lager nessuno, neppure il lettore, può uscire mai più.«Guerra è sempre!» è una frase pronunciata, dopo la liberazione, ne La tregua, da Mordo Naum, l’uomo d’azione poco incline alla cultura, che ammonisce Primo spiegandogli che in guerra bisogna pensare prima alle scarpe e poi al cibo, non viceversa: perché senza scarpe non si può andare in giro a cercare viveri.Il narratore commenta di aver compreso la verità universale per cui l’uomo resta sempre lupo all’uomo e di condividere l’amara conclusione per cui la guerra esiste sempre, e non solo perché i conflitti e le violenze, come in Cambogia, continuano a scoppiare ben dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Ma se guerra è sempre, anche il Lager è sempre, in qualsiasi momento storico e latitudine geografica. La tragica esperienza del campo non può dirsi mai conclusa, perché è pronta in qualsiasi momento a riapparire.I sommersi e i salvati conclude, perciò, la trilogia composta anche da Se questo è un uomo e da La tregua, elevando il discorso sulla Shoà dal piano della testimonianza sullo sterminio a quello della riflessione sull’annientamento psicologico, morale e intellettuale dell’uomo moderno. L’anti-uomo moderno non è solo la vittima, ma è anche il carnefice. Entrambi hanno perso ogni tratto di umanità. Per questo la prospettiva di Levi non è quella del giudizio storico, più o meno risentito, contro i nazisti o i kapò, ma è la denuncia della disumanizzazione che sempre si agita nel fondo del consorzio umano moderno. Il Lager diventa la metafora estrema, la terribile verità ultima del mondo contemporaneo.Così rappresentato, il Lager si pone anche come un’allegoria di un problema intellettuale di capitale importanza, nel senso che sintetizza simbolicamente il problema del rapporto tra l’intellettuale e il mondo. Il compito dell’intellettuale non consiste solo nello sforzo di alimentare la memoria del passato, ma si identifica con l’ambizione di dimostrare la perenne contemporaneità del Lager, la sua radicale immanenza nel presente. In questo senso, il messaggio di Levi è importante anche come antidoto contro ogni eventuale retorica della memoria della Shoà, diventata oggi dilagante, e tanto più in un momento come il nostro, in cui le antiche vittime si sono trasformate in carnefici (come nel conflitto Istraele-Palestina), e in cui altre forme di Lager nascono e si moltiplicano in tante parti del mondo, e anche da noi (basta pensare ai CPT, o ai campi di lavoro per immigrati ridotti in schiavitù da connazionali trasformati in redivivi kapos).È sensato porsi il problema di una riflessione sull’intellettuale e-a Auschwizt? È legittimo affrontare la memoria di Auschwitz, intendendolo non solo come una fabbrica di morte, sofferenza, terrore, infelicità, ma anche come il luogo in cui è stata messa in atto la distruzione dell’intellettuale, per l’avvenuta verifica su larga scala della sua inutilità e insignificanza? Per quanto la cosa possa sembrare a prima vista strana (si potrebbe infatti obiettare che ben altri orrori sono stati più importanti, nel Lager, della distruzione dell’intellettuale), la domanda è invece non solo legittima, ma anche cruciale, ed è del resto centrale, oltre che in Levi, anche in Jean Amèry (soprattutto nel suo Intellettuale a Auschwitz) e, in forma parzialmente diversa, perché legata anche a una prospettiva religiosa, in Viktor Frankl. Se per quest’ultimo la sofferenza, anche quella estrema del Lager, è una prova che rimanda a Dio, e se la logoterapia dimostra che il senso della vita può essere sempre ritrovato, anche nel Lager, per Amèry, compagno di baracca di Levi per un breve periodo, ad Auschwitz l’intellettuale è morto, perché la fiducia nel mondo è stata irrimediabilmente distrutta.Pur proponendo un bilancio lucidamente negativo, assai più vicino a quello di Améry che non a quello di Frankl, Levi non ha però perso del tutto la fiducia nell’uomo e nel valore civile del mandato dell’intellettuale. La scrittura si riconferma per lui un valore e un’arma contro la consunzione della memoria, che sempre si corrode, intrecciandosi con la menzogna. La funzione dell’intellettuale si identifica con la capacità di tener vigile e trasmettere la coscienza del Lager, non come episodio circoscritto e storicamente concluso, ma come realtà sempre contemporanea, contro cui perennemente lottare.

ALESSANDRO GAUDIO, IL FANTASMA ESCE DI SENNO. L'umana ambivalenza di Philip Roth


Alessandro Gaudio (Università della Calabria)
Il fantasma esce di senno. L’umana ambivalenza di Philip Roth
Lezione preparatoria alla Giornata della Memoria
Università della Calabria, 14 gennaio 2009


Sin dai versi di Dylan Thomas posti in epigrafe a Il fantasma esce di scena – «Prima che morte ti prenda, rimangiati tutto» – l’ultimo romanzo di Philip Roth sembra confermare l’impianto di contrapposizioni che costella molte delle sue prove narrative: storia, corpo e cultura, colti nella loro moderna incommensurabile concretezza (nella loro totalità e nella loro nullità), appaiono e scompaiono, si eclissano e assurgono a nuova vita, secondo un reticolo di ambivalenze emotive che è senz’altro freudiano prima ancora che letterario. E su una contrapposizione generazionale è basata la poesia di Thomas citata da Roth: si tratta di un componimento del 1933, intitolato Find meat on bones (Cerca la carne sulle ossa) e poi incluso in Twenty-five poems, silloge pubblicata nel ’36: un padre invita il figlio a reagire all’inesorabilità della morte, «al verme che nessuno può ammazzare» («[…] the maggot no man can slay»). Il giovane, tuttavia, ha accettato la ciclicità del tempo che scorre e non ha alcuna intenzione di accogliere l’esortazione del padre a non resistere alle tentazioni e a godersi pienamente la vita; gli suggerisce, anzi, di cambiare idea, prima che sia troppo tardi. Al di là delle consonanze tra il tema del romanzo e quello dei versi del poeta inglese, Roth sembra voler sfruttare la loro forte matrice corporale e il modo in cui suggeriscono il passaggio dal coinvolgimento personale dell’autore nel tessuto dell’opera alla determinazione della sua carica universale.Nel recente Everyman, Roth aveva descritto la percezione di una catastrofe, interiore e collettiva allo stesso tempo, alla quale si può sfuggire soltanto attraverso l’ironia; cioè mediante una forma di reazione individuale e acerba, pre-esistente e solitaria, che (nella sua universalità e ambivalenza) è propriamente letteraria. Non è possibile salvarsi dalla decadenza, dalla depressione e dall’incultura, se non sul piano metempirico della scrittura, unica e insensata arte di non morire: la letteratura, con il suo potere di illusione, è la quintessenza dell’umano e l’unica lingua del superstite, di chi non è stato ancora ‘preso dalla morte’ o – che è la medesima cosa – di chi vuole sottrarsi alle spire di un’esistenza postuma. Ma per comprendere il principio sul quale si fonda Il fantasma esce di scena è necessario risalire sino all’inizio dell’epopea di Nathan Zuckerman (personaggio alter ego di Roth) così come è raccontato nello Scrittore fantasma, romanzo scritto alla fine degli anni Settanta.La storia (ambientata nel 1956) aveva già chiarito che la strategia adottata da Roth per far fronte tanto agli stereotipi e ai tic dell’establishment letterario, quanto agli eccessi dell’ortodossia ebraica e al senso di esclusione indotto dal sentirsi endemicamente un rifugiato avrebbe fatto leva sul potere mordace e rivitalizzante dell’immaginazione («da tutto ciò che di umiliante il mio stesso padre aveva dovuto subire, e da cui con tanta angoscia e con tanto accanimento aveva cercato di riscattarci tutti, si poteva ricavare a testa alta una letteratura di così caustica e severa intensità», SF, p. 10).[1] Dopo aver vissuto l’esperienza di quella notte, trascorsa nella casa (solitaria e serena) del grande scrittore ebreo Emanuel Isidore Lonoff e di sua moglie Hope, il giovane Zuckerman deciderà di allontanarsi dal mondo editoriale newyorkese al quale preferirà ancora l’isolamento della campagna dei Berkshire: non rinuncerà però a quella coscienza letteraria che gli avrebbe consentito di agire, pur dalla sua dimora appartata, sul presente. Il sogno di sposare Amy Bellette, studentessa ventisettenne, ospite dei Lonoff, che sostiene di essere Anne Frank, non è altro che l’estensione letteraria della propria docile esistenza ed è, dunque, la resistenza ad essa; è la difesa romanzesca dall’aspra accusa di antisemitismo lanciata a Roth dalla comunità ebraica: non è peregrino pensare che, al di là di tale desiderio, non ci sia altro che la morte e, cioè, nulla («Da trent’anni scrivo opere di fantasia. A me – dice Lonoff – non succede mai nulla», SF, p. 13). E, tuttavia, il sogno di Zuckerman non è una vacanza dalla realtà: è un modello di umanesimo che si propone di cercare la verità ultima del mondo contemporaneo. È per questo che la dimensione intellettuale che Roth predilige e persegue, essendo dunque legata alla fattualità, all’artigianalità dello scrivere e del pensare così come alla sua innocenza e alla profonda inettitudine, oppone il suo veto agli «innocenti di professione» (SF, p. 18), ai recensori, all’odiosa ingenuità degli studiosi e ai pensatori specializzati, ai «pidocchi della letteratura» (FES, p. 224). A questo identikit risponde certamente Richard Kliman, l’aspirante biografo di Lonoff che, nel Fantasma esce di scena, cercherà in tutti i modi l’avallo etico e la collaborazione di uno stizzito e recalcitrante Zuckerman.Le convinzioni di Roth sul mestiere di scrivere non devono indurre a pensare che sia sua intenzione prospettare un modello di scrittore improvvisato, un dilettante che mentre osserva la realtà dal suo punto di vista isolato ne arrangia un prospetto credibile o accattivante. A chiarire il suo pensiero partecipano anche le trascrizioni delle conversazioni che, intorno alla metà degli anni Ottanta, intrattenne con Primo Levi e Aharon Appelfeld. Dal dialogo con Levi viene fuori la predilezione di Roth per un’anima intellettuale nella quale la figura dello scrittore (o – è lo stesso – quella del superstite) e quella dello scienziato si legano e si rafforzano l’un l’altra. L’‘uomo di precisione’ (incarnato da Levi), che pensa e osserva direttamente il mondo delle cose reali, è mosso da un intenso desiderio di capire che gli deriva dal trovarsi contemporaneamente dentro e fuori rispetto alle cose stesse, in una organica e anomala condizione di precarietà. Partendo da questa anomalia (in Levi, costituita tanto dalla sua esistenza di sopravvissuto quanto dalla sua militanza aziendale), dalla consapevolezza del non umano, la scrittura continua ad attestare e a rinforzare l’onnipresenza del valore umano. Qualità che – direbbe Foucault – ignora la «serenità del positivo».[2]L’opportunità di uno stile oggettivo, la necessità di adottare una prospettiva ampia ed esaustiva, il valore accordato all’ironia sono tutte qualità che ben si sposano, ancora nel colloquio con Appelfeld, con il requisito di scrittore deportato, dislocato, sradicato, che Roth sembra prediligere: chiarezza e proporzione che diventano ancor più essenziali nel momento in cui, come nei suoi romanzi, la realtà si intreccia alla finzione e, anzi, questa serve alla comprensione di quella. Nel modo in cui nei romanzi di Roth il senso di colpa si trasforma in atto d’accusa e in desiderio di riformare il mondo c’è anche il suo tentativo di riavvicinarsi, come Appelfeld, alla piena comprensione della sua identità cui è sotteso, ancora una volta, un principio umanistico.[3]Lo sfondo decadente della contemporaneità descritta da Roth prevede, perciò, uno spazio per l’immaginazione e per il risveglio delle possibilità: questo luogo fantasmatico si affianca alla narrazione dei fatti (la secca cronaca sempre sostenuta dalla sognante ironia) in modo da portare sulla scena l’attività creatrice di cui è animato: nello Scrittore fantasma, nei corsivi che rendono le parole non dette (le «insidiose fantasticherie», SF, p. 18) di Zuckerman; nel libro più recente, nelle parti da lui dedicate al dialogo inventato tra lui e lei. Tale fervente esercizio creatore non è che la trascrizione dei propri desideri e costituisce anch’esso una porzione di realtà, anche quando non riesce in alcun modo a influire su di essa. Nondimeno, realtà e desiderio sono dotati dello stesso passo e della stessa «turbolenza» (SF, p. 27). Ne viene fuori una serie di momenti di instabilità della storia; momenti fatti di chiarezza e di confusione che contribuiscono alla comprensione dell’insieme, benché non si tratti che di lampi di follia. In ciò che Roth, nello Scrittore fantasma, definiva «follia dell’arte» (SF, p. 63) si ritrova l’equilibrio di quella realtà non scritta che scappa da tutte le parti, che è, questa sì, inspiegabile e assurdamente sproporzionata e che è necessario tradurre in scrittura affinché se ne possa avere una più esatta cognizione. Non mera invenzione, dunque, ma passaggio, traduzione che presume la vita reale: nei romanzi di Roth (e non soltanto in quelli di cui si scrive qui) esiste una relazione vitale tra la follia dell’arte e l’immaginazione; si tratta di una connessione che resta ben al di là della semplice creazione di storie proprio perché è una pratica concepita come spontanea, concitata e naturalmente connessa alla realtà e che deve basarsi sull’esercizio della passione dello scrittore e, quindi, sul dubbio e sulla possibilità che da questo sorgono. È come se Zuckerman bramasse una seconda esistenza alla stessa stregua del modo in cui Amy Bellette («la grande desideratrice», SF, p. 120) imita l’arte del grande scrittore spacciandosi per Anne Frank. Entrambi desiderano una seconda possibilità laddove l’unica accordata loro ha mostrato i suoi limiti e si sta esaurendo: questo piccolo e miracoloso incantesimo (che Roth mutua dalle riflessioni sull’arte che concludono un racconto di Henry James) passa attraverso l’immaginazione e le sue impreviste conseguenze. La realtà viene risucchiata dalle storie che Zuckerman ha sviluppato su Amy e che ella stessa ha costruito: viene, cioè, assorbita nel non esistente, tirata fuori dal non vissuto (cfr. SF, p. 141), da tutto ciò che, non conosciuto, si riesce a scoprire con l’immaginazione.Zuckerman, cinquanta anni dopo, ha smesso di vivere nel presente («io ero ormai semplicemente uno spettatore e un outsider. Io non mi intromettevo nel dramma generale, e il dramma generale non s’intrometteva nella mia vita privata», FES, pp. 81-82) e, «mentalmente in folle» direbbe Conrad, si è ormai trasformato in Lonoff stesso: tentato dall’idea di non pubblicare più, si è ritirato nella sua «capanna» nei Berkshire, da dove può «restare in America senza più assorbire l’America dentro di [sé]» (FES, p. 61). Tra le sbarre di questa gabbia (come per Lonoff «aver osato credere che gli era permesso riscrivere un paragrafo cinquanta volte al giorno e intanto vivere in qualcosa di diverso da una gabbia», FES, p. 20) passa, inattesa, l’insensata speranza di risolvere i problemi di impotenza e di incontinenza che lo affliggono: illusione che lo induce a tornare a New York e a riconsiderare l’opportunità di superare quel limite; la senile soluzione di lasciar perdere è soppiantata, insomma, dall’emergere di una nuova virilità di mente e di spirito. E allora il fantasma esce di senno nel momento in cui – come nell’esempio (emblematico per Roth) del capitano della Linea d’ombra – conosce il dramma che i giovani vivono quando «cominciano a entrare pienamente nella vita» (FES, p. 105), comprendendo, altresì, che «questi momenti di follia non capitano solo quando si è giovani» (FES, p. 113).Immaginare di sposare Anne Frank era stata una di queste azioni ed era anche la risposta all’accusa lanciata a Zuckerman (e al Roth dei racconti di Addio, Columbus) di essere incapace di comprendere le ragioni e i costumi del popolo ebraico. Registrare, oggi come allora, una cosa che non è mai accaduta non allevia alcunché; e, tuttavia, è assolutamente indispensabile scriverla (cfr. FES, p. 118-119). Per perorare questo assunto (l’importanza e la grande difficoltà di una letteratura che serva a pensare) Roth si serve ancora una volta di Amy Bellette: Zuckerman la incontra di nuovo, malata, confusa, quasi in uno stato di inettitudine, ma comunque, da «vecchia pazza» (FES, p. 148), in grado di trovare le energie e il senno per redigere una lucidissima lettera (in risposta a un articolo del «Times» su Hemingway) sulla funzione della scrittura, sulla fine dell’era letteraria e contro un certo giornalismo culturale. Come il viso deturpato di Amy è il volto visibile della malattia che alberga nel suo corpo, ciò che scrive rende visibile la trasgressione che incarna. Il ‘lirismo’ del suo male non è mai fine a se stesso: la follia letteraria di Amy, pur essendo vuota, è interamente devoluta alla funzione rivelatrice che detiene in seno all’opera di Roth: ne è – si potrebbe dire – il punto di partenza. La missiva condensa la riflessione iniziata nel 1979 con Lo scrittore fantasma: «C’è stato un tempo in cui le persone intelligenti usavano la letteratura per pensare. Quel tempo – confessa Amy in apertura dello scritto – sta per finire» (FES, p. 149). La causa di ciò è che, nei giornali come nelle scuole e nelle università, la letteratura non viene più considerata come capace di influenzare il modo in cui la vita viene percepita, tanto che è quasi preferibile che oggi di essa non se ne faccia più alcun uso pubblico. Il «vandalismo culturale» condotto da gazzette, periodici e riviste accademiche che si introducono impunemente e con la mano pesante nella vita di chi scrive (perdendo, però, di vista ciò che effettivamente si è scritto) dovrebbe indurre a non parlar più di letteratura e a lasciare così il lettore solo davanti al libro da leggere. Se tipi come Kliman (mossi da una forma meschina di spirito della ricerca) continuano ad agire indisturbati, la letteratura ha perso la sua funzione intellettuale: essa, insomma, o si occupa del modo in cui ciascun essere umano sperimenta la vita, o riguarda il modo esuberante in cui lo spirito di chi scrive si vieta di avere un rapporto pacifico con la realtà, oppure non è.La letteratura (allo stesso modo del desiderio) riguarda, insomma, il dolore di essere presente nel presente: esso è, per Zuckerman, sentire conradianamente la seduzione esercitata da ogni svolta del sentiero, così come, in chiusura di romanzo, «cercare un ruolo nel dramma del [suo] tempo» (FES, p. 219). E, rileggendo il ritratto di Conrad redatto da Bertrand Russell, si ritrova quel rapporto dell’uomo con i propri fantasmi sapientemente evocato da Roth: «egli concepiva la vita umana civilizzata e moralmente tollerabile come un pericoloso cammino su una crosta sottile di lava appena raffreddata che da un momento all’altro avrebbe potuto rompersi e lasciar sprofondare l’incauto in abissi infocati».[4] Il grande culto per l’ordine interiore che, secondo Conrad, può essere sconvolto dalla fatalità, in Roth può essere infranto dal manifestarsi di un desiderio o – se si preferisce – da un momento di follia. Se nel campo della finzione troviamo un modo per sopportare la vita e per ricostruire la sua pluralità, allora possiamo anche trovarvi l’accettazione della morte. Secondo Roth si tratta di un passo indispensabile da compiere in un’epoca in cui si deve fare i conti con un’atmosfera psicologica diffusamente ansiosa e stagnante.Superare la linea d’ombra, così, significa proprio riunire la realtà interiore (per esempio, quella tratteggiata nei dialoghi immaginari di Zuckerman) e quella esteriore: se ne trarrà un equilibrio provvisorio che si nutre della conversazione come della sottoconversazione e che consente una nuova presa sulle cose e permette di aggirare le limitazioni imposte sulla verità. Nel perseguire tale fine, la letteratura potrebbe molto se non fosse ridotta a semplice pratica evasiva o, come nell’esperienza di Lonoff, a egoistico tentativo di realizzare le proprie ambizioni sul versante oscuro e limitato di un esercizio di scrittura quasi autistico. E, allora, superare la linea d’ombra vuol dire anche apprendere la radice terrena, umile, della realtà e accettare che dietro il limite delle tenebre non c’è nulla. Roth distilla un carattere umano universale: quello di un uomo diviso, ma anche legato alle proprie origini; un uomo impegnato, ma anche paralizzato dal senso imposto dalla cultura cui appartiene.È evidente che il termine fantasma suggerisca l’irrisolta opposizione che nei romanzi di Roth vige tra immaginazione e realtà. Il fantasma che esce di scena riguarda sia il modo in cui il desiderio inconscio viene appagato (in Lonoff, ad esempio, nell’elaborare cinquanta versioni del medesimo racconto; oppure nei lampi di follia di Zuckerman) sia il processo mediante il quale una fantasia primaria (quali possono essere considerate la sintomatica identificazione di Amy Bellette con Anne Frank e il fatto che Zuckerman si innamori di lei) si manifesta. Nell’uno e nell’altro caso Roth si concentra sul modo in cui il principio di realtà possa essere dedotto tanto dalle illusioni quanto da ciò che passa attraverso il sistema di percezione. Come Freud, Roth non è in grado di riconoscere il carattere conscio, inconscio o subliminale del fantasma: anzi, gioca con il grado di compromissione tra i vari livelli. Questa sorta di indistinzione influisce tanto sul mondo interiore di Zuckerman (l’illusorio soddisfacimento dei suoi desideri) quanto sul mondo esteriore e, dunque, sul suo principio di realtà. Insomma, è certo che Roth consideri la vita fantasmatica e la sua impurità come punto privilegiato dal quale valutare la rimozione o il ritorno del rimosso. La nostra vita è interamente modellata da un’attività immaginativa che attrae costantemente a sé il reale. Roth biasima la marginalizzazione della letteratura (avallata, a suo dire, anche dall’ottusità della critica), decretando la fine della funzione della fantasia intesa come messinscena del desiderio: lo fa esemplarmente, sia operando a livello diegetico (sull’alternarsi di testo e ipotesto) sia agendo su un livello metaletterario, mediante il richiamo costante al suo rapporto con la scrittura e al modo in cui questa ha influito sull’allestimento di ciò che psicanaliticamente si potrebbe definire il suo romanzo familiare.
Alessandro Gaudio[1] Da ora in poi, nel riferirmi ai due romanzi di Roth citati più frequentemente, userò le seguenti sigle: SF (Lo scrittore fantasma [1979], Torino, Einaudi, 2006); FES (Il fantasma esce di scena [2007], Torino, Einaudi, 2008).[2] M. Foucault, La follia, l’opera assente, in Scritti letterari [1994], Milano, Feltrinelli, 2004, p. 101.[3] Le due conversazioni sono riportate in Ph. Roth, Chiacchiere di bottega. Uno scrittore, i suoi colleghi e il loro lavoro [2001], Torino, Einaudi, 2004, pp. 3-18 e 19-39.[4] B. Russell, Ritratti a memoria [1956], Milano, Longanesi, 1971, p. 98. Sul modo in cui tale principio si attagli all’opera di Conrad e, nello specifico, alla Linea d’ombra cfr. E.W. Said, Joseph Conrad e la finzione autobiografica [1966], trad. di E. Nifosi, Milano, il Saggiatore, 2008, in particolare pp. 175-204.