domenica 25 gennaio 2009

MARGHERITA GANERI, "GUERRA E' SEMPRE". PRIMO LEVI E IL LAGER COME METAFORA ESTREMA DEL MONDO CONTEMPORANEO


Margherita Ganeri (Università della Calabria)
«Guerra è sempre!». Primo Levi e il Lager come metafora estrema del mondo contemporaneo.
Lezione preparatoria alla Giornata della MemoriaUniversità della Calabria, 14 gennaio 2009.


Nell’aprile del 1986 Primo Levi pubblica I sommersi e i salvati, in cui il ricordo della propria prigionia nel campo di concentramento di Auschwitz si congiunge, nella percezione distanziante del gap temporale che lo separa dall’esperienza vissuta, con una riflessione generale sul significato del Lager per la storia contemporanea, oltre che sul senso del reinserimento dei superstiti nel mondo successivo a Auschwitz. Chi sono i sommersi e chi sono i salvati? I sommersi sono, ovviamente, coloro che nel Lager hanno perso la vita, mentre i salvati sono i reduci. Anch’essi, però, non sono salvi, perché per loro il Lager continua ad esistere come realtà incancellabile del ricordo, e quindi come dimensione costantemente presente, seppure nascosta, alla percezione del mondo. Il Lager è l’equivalente rovesciato di ciò che si percepisce in superficie, e che può anche non apparire malvagio, e anzi, mendacemente, sembrare buono e positivo. Dietro la rimozione del male, la realtà sommersa del Lager, che i salvati conoscono, è l’unica reale e vera, e rappresenta la sola verità contro ogni illusione e oblio.Nel toccante finale de La tregua, che richiama la poesia posta in esergo, il Lager riaffiora nei sogni dei superstiti come una dimensione che, per contrasto, fa loro percepire la vita diurna come un sogno, un’illusione, una finzione. Il richiamo della sveglia all’alba, che ogni prigioniero teme, e insieme - solo in sogno? - quasi desidera, in un dantesco grigiore indefinito, in un’invincibile e quasi soprannaturale solitudine, è terribile perché toglie ogni illusione, ma proprio per questo va vista principalmente come una metafora della condizione esistenziale umana. Se il Lager è per Levi un luogo-laboratorio nel quale si sperimenta quasi scientificamente, in condizioni estreme, la lotta per la vita, e nel quale si scarnifica l’essenza stessa dell’uomo, perché essa si dimostra semplice e inutile superfetazione rispetto ai soli istinti biologici elementari, il Lager è anche «il fondo», l’ombra magnetica che catalizza, alla fine, nel suo paradossale e diabolico estremismo, le forze negative latenti e sempre in azione nel cosiddetto mondo civile. Per questo il Lager, come scrive Levi, è collocato al termine di una catena che parte da ogni minima prevaricazione o discriminazione, razziale o di altro tipo. È il capolinea sempre raggiungibile e sempre a rischio di essere raggiunto dalle società moderne. Il messaggio che ne possiamo trarre è che, una volta compresa questa correlazione, dal Lager nessuno, neppure il lettore, può uscire mai più.«Guerra è sempre!» è una frase pronunciata, dopo la liberazione, ne La tregua, da Mordo Naum, l’uomo d’azione poco incline alla cultura, che ammonisce Primo spiegandogli che in guerra bisogna pensare prima alle scarpe e poi al cibo, non viceversa: perché senza scarpe non si può andare in giro a cercare viveri.Il narratore commenta di aver compreso la verità universale per cui l’uomo resta sempre lupo all’uomo e di condividere l’amara conclusione per cui la guerra esiste sempre, e non solo perché i conflitti e le violenze, come in Cambogia, continuano a scoppiare ben dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Ma se guerra è sempre, anche il Lager è sempre, in qualsiasi momento storico e latitudine geografica. La tragica esperienza del campo non può dirsi mai conclusa, perché è pronta in qualsiasi momento a riapparire.I sommersi e i salvati conclude, perciò, la trilogia composta anche da Se questo è un uomo e da La tregua, elevando il discorso sulla Shoà dal piano della testimonianza sullo sterminio a quello della riflessione sull’annientamento psicologico, morale e intellettuale dell’uomo moderno. L’anti-uomo moderno non è solo la vittima, ma è anche il carnefice. Entrambi hanno perso ogni tratto di umanità. Per questo la prospettiva di Levi non è quella del giudizio storico, più o meno risentito, contro i nazisti o i kapò, ma è la denuncia della disumanizzazione che sempre si agita nel fondo del consorzio umano moderno. Il Lager diventa la metafora estrema, la terribile verità ultima del mondo contemporaneo.Così rappresentato, il Lager si pone anche come un’allegoria di un problema intellettuale di capitale importanza, nel senso che sintetizza simbolicamente il problema del rapporto tra l’intellettuale e il mondo. Il compito dell’intellettuale non consiste solo nello sforzo di alimentare la memoria del passato, ma si identifica con l’ambizione di dimostrare la perenne contemporaneità del Lager, la sua radicale immanenza nel presente. In questo senso, il messaggio di Levi è importante anche come antidoto contro ogni eventuale retorica della memoria della Shoà, diventata oggi dilagante, e tanto più in un momento come il nostro, in cui le antiche vittime si sono trasformate in carnefici (come nel conflitto Istraele-Palestina), e in cui altre forme di Lager nascono e si moltiplicano in tante parti del mondo, e anche da noi (basta pensare ai CPT, o ai campi di lavoro per immigrati ridotti in schiavitù da connazionali trasformati in redivivi kapos).È sensato porsi il problema di una riflessione sull’intellettuale e-a Auschwizt? È legittimo affrontare la memoria di Auschwitz, intendendolo non solo come una fabbrica di morte, sofferenza, terrore, infelicità, ma anche come il luogo in cui è stata messa in atto la distruzione dell’intellettuale, per l’avvenuta verifica su larga scala della sua inutilità e insignificanza? Per quanto la cosa possa sembrare a prima vista strana (si potrebbe infatti obiettare che ben altri orrori sono stati più importanti, nel Lager, della distruzione dell’intellettuale), la domanda è invece non solo legittima, ma anche cruciale, ed è del resto centrale, oltre che in Levi, anche in Jean Amèry (soprattutto nel suo Intellettuale a Auschwitz) e, in forma parzialmente diversa, perché legata anche a una prospettiva religiosa, in Viktor Frankl. Se per quest’ultimo la sofferenza, anche quella estrema del Lager, è una prova che rimanda a Dio, e se la logoterapia dimostra che il senso della vita può essere sempre ritrovato, anche nel Lager, per Amèry, compagno di baracca di Levi per un breve periodo, ad Auschwitz l’intellettuale è morto, perché la fiducia nel mondo è stata irrimediabilmente distrutta.Pur proponendo un bilancio lucidamente negativo, assai più vicino a quello di Améry che non a quello di Frankl, Levi non ha però perso del tutto la fiducia nell’uomo e nel valore civile del mandato dell’intellettuale. La scrittura si riconferma per lui un valore e un’arma contro la consunzione della memoria, che sempre si corrode, intrecciandosi con la menzogna. La funzione dell’intellettuale si identifica con la capacità di tener vigile e trasmettere la coscienza del Lager, non come episodio circoscritto e storicamente concluso, ma come realtà sempre contemporanea, contro cui perennemente lottare.