domenica 25 gennaio 2009

VEDERE L'ALTRO RASSEGNA FOTOGRAFICA



Università della Calabria, La Giornata della Memoria per la fotografia d'arte
"Vedere l'Altro"

Sulla base di un'attenta visione del materiale pervenuto, il comitato scientifico di "Vedere l'Altro" informa sui modi, tempi e luoghi della rassegna.
Gli appuntamenti sono tre.

Il primo appuntamento è il 26 gennaio, alle ore 18.30, nel Teatro Piccolo dell'Università della Calabria. Le fotografie verranno mostrate - in formato digitale - all'interno di un'installazione video musicale di Ivano Morrone, docente presso il Conservatorio Giacomantonio di Cosenza. Il titolo dell'opera si chiama "Cartoline Ferramonti. Vedere l'Altro". Nella circostanza Tonino Sicoli e Giorgio Reda terranno una presentazione.

Il secondo appuntamento è il 27 gennaio, alle ore 9.00, nell'Aula Magna dell'Università della Calabria. Le fotografie, riunite in una video presentazione digitale a cura di Federica Piraino, verranno mostrate lungo tutto l'arco del convegno "Toccare, vedere, sentire: comprendere l'Altro". Contestualmente verrà distribuito a titolo gratuito un cd ad edizione limitata, con all'interno la stessa presentazione e le foto, riunite in cartelle per singolo autore.

Il terzo appuntamento è il 28 gennaio, alle ore 10.00, presso il campo di concentramento Ferramonti a Tarsia. Le fotografie, sempre in video proiezione, saranno mostrate in un'apposita sala, dove rimarranno nei giorni successivi. Per ogni visita successiva, singola o di gruppo, gli autori possono prendere accordi con Francesco Panebianco o con Damiano Vuono, responsabili della gestione del campo.
Nel frattempo il comitato scientifico avrà scelto tre fotografie - sottolineiamo tre e non più una soltanto, come da bando. A Ferramonti si terrà una cerimonia di premiazione, presieduta da Anna Foa e dai toni rigorosamente informali. A seguire le tre selezionate verranno scoperte e da allora entreranno stabilmente nel patrimonio del Museo.

Il comitato scientifico
Paolo Coen, Fabio De Chirico, Francesco Panebianco, Francesca Rota, Tonino Sicoli

GIORNATA DELLA MEMORIA 2009 PROGRAMMA UFFICIALE

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MARGHERITA GANERI, "GUERRA E' SEMPRE". PRIMO LEVI E IL LAGER COME METAFORA ESTREMA DEL MONDO CONTEMPORANEO


Margherita Ganeri (Università della Calabria)
«Guerra è sempre!». Primo Levi e il Lager come metafora estrema del mondo contemporaneo.
Lezione preparatoria alla Giornata della MemoriaUniversità della Calabria, 14 gennaio 2009.


Nell’aprile del 1986 Primo Levi pubblica I sommersi e i salvati, in cui il ricordo della propria prigionia nel campo di concentramento di Auschwitz si congiunge, nella percezione distanziante del gap temporale che lo separa dall’esperienza vissuta, con una riflessione generale sul significato del Lager per la storia contemporanea, oltre che sul senso del reinserimento dei superstiti nel mondo successivo a Auschwitz. Chi sono i sommersi e chi sono i salvati? I sommersi sono, ovviamente, coloro che nel Lager hanno perso la vita, mentre i salvati sono i reduci. Anch’essi, però, non sono salvi, perché per loro il Lager continua ad esistere come realtà incancellabile del ricordo, e quindi come dimensione costantemente presente, seppure nascosta, alla percezione del mondo. Il Lager è l’equivalente rovesciato di ciò che si percepisce in superficie, e che può anche non apparire malvagio, e anzi, mendacemente, sembrare buono e positivo. Dietro la rimozione del male, la realtà sommersa del Lager, che i salvati conoscono, è l’unica reale e vera, e rappresenta la sola verità contro ogni illusione e oblio.Nel toccante finale de La tregua, che richiama la poesia posta in esergo, il Lager riaffiora nei sogni dei superstiti come una dimensione che, per contrasto, fa loro percepire la vita diurna come un sogno, un’illusione, una finzione. Il richiamo della sveglia all’alba, che ogni prigioniero teme, e insieme - solo in sogno? - quasi desidera, in un dantesco grigiore indefinito, in un’invincibile e quasi soprannaturale solitudine, è terribile perché toglie ogni illusione, ma proprio per questo va vista principalmente come una metafora della condizione esistenziale umana. Se il Lager è per Levi un luogo-laboratorio nel quale si sperimenta quasi scientificamente, in condizioni estreme, la lotta per la vita, e nel quale si scarnifica l’essenza stessa dell’uomo, perché essa si dimostra semplice e inutile superfetazione rispetto ai soli istinti biologici elementari, il Lager è anche «il fondo», l’ombra magnetica che catalizza, alla fine, nel suo paradossale e diabolico estremismo, le forze negative latenti e sempre in azione nel cosiddetto mondo civile. Per questo il Lager, come scrive Levi, è collocato al termine di una catena che parte da ogni minima prevaricazione o discriminazione, razziale o di altro tipo. È il capolinea sempre raggiungibile e sempre a rischio di essere raggiunto dalle società moderne. Il messaggio che ne possiamo trarre è che, una volta compresa questa correlazione, dal Lager nessuno, neppure il lettore, può uscire mai più.«Guerra è sempre!» è una frase pronunciata, dopo la liberazione, ne La tregua, da Mordo Naum, l’uomo d’azione poco incline alla cultura, che ammonisce Primo spiegandogli che in guerra bisogna pensare prima alle scarpe e poi al cibo, non viceversa: perché senza scarpe non si può andare in giro a cercare viveri.Il narratore commenta di aver compreso la verità universale per cui l’uomo resta sempre lupo all’uomo e di condividere l’amara conclusione per cui la guerra esiste sempre, e non solo perché i conflitti e le violenze, come in Cambogia, continuano a scoppiare ben dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Ma se guerra è sempre, anche il Lager è sempre, in qualsiasi momento storico e latitudine geografica. La tragica esperienza del campo non può dirsi mai conclusa, perché è pronta in qualsiasi momento a riapparire.I sommersi e i salvati conclude, perciò, la trilogia composta anche da Se questo è un uomo e da La tregua, elevando il discorso sulla Shoà dal piano della testimonianza sullo sterminio a quello della riflessione sull’annientamento psicologico, morale e intellettuale dell’uomo moderno. L’anti-uomo moderno non è solo la vittima, ma è anche il carnefice. Entrambi hanno perso ogni tratto di umanità. Per questo la prospettiva di Levi non è quella del giudizio storico, più o meno risentito, contro i nazisti o i kapò, ma è la denuncia della disumanizzazione che sempre si agita nel fondo del consorzio umano moderno. Il Lager diventa la metafora estrema, la terribile verità ultima del mondo contemporaneo.Così rappresentato, il Lager si pone anche come un’allegoria di un problema intellettuale di capitale importanza, nel senso che sintetizza simbolicamente il problema del rapporto tra l’intellettuale e il mondo. Il compito dell’intellettuale non consiste solo nello sforzo di alimentare la memoria del passato, ma si identifica con l’ambizione di dimostrare la perenne contemporaneità del Lager, la sua radicale immanenza nel presente. In questo senso, il messaggio di Levi è importante anche come antidoto contro ogni eventuale retorica della memoria della Shoà, diventata oggi dilagante, e tanto più in un momento come il nostro, in cui le antiche vittime si sono trasformate in carnefici (come nel conflitto Istraele-Palestina), e in cui altre forme di Lager nascono e si moltiplicano in tante parti del mondo, e anche da noi (basta pensare ai CPT, o ai campi di lavoro per immigrati ridotti in schiavitù da connazionali trasformati in redivivi kapos).È sensato porsi il problema di una riflessione sull’intellettuale e-a Auschwizt? È legittimo affrontare la memoria di Auschwitz, intendendolo non solo come una fabbrica di morte, sofferenza, terrore, infelicità, ma anche come il luogo in cui è stata messa in atto la distruzione dell’intellettuale, per l’avvenuta verifica su larga scala della sua inutilità e insignificanza? Per quanto la cosa possa sembrare a prima vista strana (si potrebbe infatti obiettare che ben altri orrori sono stati più importanti, nel Lager, della distruzione dell’intellettuale), la domanda è invece non solo legittima, ma anche cruciale, ed è del resto centrale, oltre che in Levi, anche in Jean Amèry (soprattutto nel suo Intellettuale a Auschwitz) e, in forma parzialmente diversa, perché legata anche a una prospettiva religiosa, in Viktor Frankl. Se per quest’ultimo la sofferenza, anche quella estrema del Lager, è una prova che rimanda a Dio, e se la logoterapia dimostra che il senso della vita può essere sempre ritrovato, anche nel Lager, per Amèry, compagno di baracca di Levi per un breve periodo, ad Auschwitz l’intellettuale è morto, perché la fiducia nel mondo è stata irrimediabilmente distrutta.Pur proponendo un bilancio lucidamente negativo, assai più vicino a quello di Améry che non a quello di Frankl, Levi non ha però perso del tutto la fiducia nell’uomo e nel valore civile del mandato dell’intellettuale. La scrittura si riconferma per lui un valore e un’arma contro la consunzione della memoria, che sempre si corrode, intrecciandosi con la menzogna. La funzione dell’intellettuale si identifica con la capacità di tener vigile e trasmettere la coscienza del Lager, non come episodio circoscritto e storicamente concluso, ma come realtà sempre contemporanea, contro cui perennemente lottare.

ALESSANDRO GAUDIO, IL FANTASMA ESCE DI SENNO. L'umana ambivalenza di Philip Roth


Alessandro Gaudio (Università della Calabria)
Il fantasma esce di senno. L’umana ambivalenza di Philip Roth
Lezione preparatoria alla Giornata della Memoria
Università della Calabria, 14 gennaio 2009


Sin dai versi di Dylan Thomas posti in epigrafe a Il fantasma esce di scena – «Prima che morte ti prenda, rimangiati tutto» – l’ultimo romanzo di Philip Roth sembra confermare l’impianto di contrapposizioni che costella molte delle sue prove narrative: storia, corpo e cultura, colti nella loro moderna incommensurabile concretezza (nella loro totalità e nella loro nullità), appaiono e scompaiono, si eclissano e assurgono a nuova vita, secondo un reticolo di ambivalenze emotive che è senz’altro freudiano prima ancora che letterario. E su una contrapposizione generazionale è basata la poesia di Thomas citata da Roth: si tratta di un componimento del 1933, intitolato Find meat on bones (Cerca la carne sulle ossa) e poi incluso in Twenty-five poems, silloge pubblicata nel ’36: un padre invita il figlio a reagire all’inesorabilità della morte, «al verme che nessuno può ammazzare» («[…] the maggot no man can slay»). Il giovane, tuttavia, ha accettato la ciclicità del tempo che scorre e non ha alcuna intenzione di accogliere l’esortazione del padre a non resistere alle tentazioni e a godersi pienamente la vita; gli suggerisce, anzi, di cambiare idea, prima che sia troppo tardi. Al di là delle consonanze tra il tema del romanzo e quello dei versi del poeta inglese, Roth sembra voler sfruttare la loro forte matrice corporale e il modo in cui suggeriscono il passaggio dal coinvolgimento personale dell’autore nel tessuto dell’opera alla determinazione della sua carica universale.Nel recente Everyman, Roth aveva descritto la percezione di una catastrofe, interiore e collettiva allo stesso tempo, alla quale si può sfuggire soltanto attraverso l’ironia; cioè mediante una forma di reazione individuale e acerba, pre-esistente e solitaria, che (nella sua universalità e ambivalenza) è propriamente letteraria. Non è possibile salvarsi dalla decadenza, dalla depressione e dall’incultura, se non sul piano metempirico della scrittura, unica e insensata arte di non morire: la letteratura, con il suo potere di illusione, è la quintessenza dell’umano e l’unica lingua del superstite, di chi non è stato ancora ‘preso dalla morte’ o – che è la medesima cosa – di chi vuole sottrarsi alle spire di un’esistenza postuma. Ma per comprendere il principio sul quale si fonda Il fantasma esce di scena è necessario risalire sino all’inizio dell’epopea di Nathan Zuckerman (personaggio alter ego di Roth) così come è raccontato nello Scrittore fantasma, romanzo scritto alla fine degli anni Settanta.La storia (ambientata nel 1956) aveva già chiarito che la strategia adottata da Roth per far fronte tanto agli stereotipi e ai tic dell’establishment letterario, quanto agli eccessi dell’ortodossia ebraica e al senso di esclusione indotto dal sentirsi endemicamente un rifugiato avrebbe fatto leva sul potere mordace e rivitalizzante dell’immaginazione («da tutto ciò che di umiliante il mio stesso padre aveva dovuto subire, e da cui con tanta angoscia e con tanto accanimento aveva cercato di riscattarci tutti, si poteva ricavare a testa alta una letteratura di così caustica e severa intensità», SF, p. 10).[1] Dopo aver vissuto l’esperienza di quella notte, trascorsa nella casa (solitaria e serena) del grande scrittore ebreo Emanuel Isidore Lonoff e di sua moglie Hope, il giovane Zuckerman deciderà di allontanarsi dal mondo editoriale newyorkese al quale preferirà ancora l’isolamento della campagna dei Berkshire: non rinuncerà però a quella coscienza letteraria che gli avrebbe consentito di agire, pur dalla sua dimora appartata, sul presente. Il sogno di sposare Amy Bellette, studentessa ventisettenne, ospite dei Lonoff, che sostiene di essere Anne Frank, non è altro che l’estensione letteraria della propria docile esistenza ed è, dunque, la resistenza ad essa; è la difesa romanzesca dall’aspra accusa di antisemitismo lanciata a Roth dalla comunità ebraica: non è peregrino pensare che, al di là di tale desiderio, non ci sia altro che la morte e, cioè, nulla («Da trent’anni scrivo opere di fantasia. A me – dice Lonoff – non succede mai nulla», SF, p. 13). E, tuttavia, il sogno di Zuckerman non è una vacanza dalla realtà: è un modello di umanesimo che si propone di cercare la verità ultima del mondo contemporaneo. È per questo che la dimensione intellettuale che Roth predilige e persegue, essendo dunque legata alla fattualità, all’artigianalità dello scrivere e del pensare così come alla sua innocenza e alla profonda inettitudine, oppone il suo veto agli «innocenti di professione» (SF, p. 18), ai recensori, all’odiosa ingenuità degli studiosi e ai pensatori specializzati, ai «pidocchi della letteratura» (FES, p. 224). A questo identikit risponde certamente Richard Kliman, l’aspirante biografo di Lonoff che, nel Fantasma esce di scena, cercherà in tutti i modi l’avallo etico e la collaborazione di uno stizzito e recalcitrante Zuckerman.Le convinzioni di Roth sul mestiere di scrivere non devono indurre a pensare che sia sua intenzione prospettare un modello di scrittore improvvisato, un dilettante che mentre osserva la realtà dal suo punto di vista isolato ne arrangia un prospetto credibile o accattivante. A chiarire il suo pensiero partecipano anche le trascrizioni delle conversazioni che, intorno alla metà degli anni Ottanta, intrattenne con Primo Levi e Aharon Appelfeld. Dal dialogo con Levi viene fuori la predilezione di Roth per un’anima intellettuale nella quale la figura dello scrittore (o – è lo stesso – quella del superstite) e quella dello scienziato si legano e si rafforzano l’un l’altra. L’‘uomo di precisione’ (incarnato da Levi), che pensa e osserva direttamente il mondo delle cose reali, è mosso da un intenso desiderio di capire che gli deriva dal trovarsi contemporaneamente dentro e fuori rispetto alle cose stesse, in una organica e anomala condizione di precarietà. Partendo da questa anomalia (in Levi, costituita tanto dalla sua esistenza di sopravvissuto quanto dalla sua militanza aziendale), dalla consapevolezza del non umano, la scrittura continua ad attestare e a rinforzare l’onnipresenza del valore umano. Qualità che – direbbe Foucault – ignora la «serenità del positivo».[2]L’opportunità di uno stile oggettivo, la necessità di adottare una prospettiva ampia ed esaustiva, il valore accordato all’ironia sono tutte qualità che ben si sposano, ancora nel colloquio con Appelfeld, con il requisito di scrittore deportato, dislocato, sradicato, che Roth sembra prediligere: chiarezza e proporzione che diventano ancor più essenziali nel momento in cui, come nei suoi romanzi, la realtà si intreccia alla finzione e, anzi, questa serve alla comprensione di quella. Nel modo in cui nei romanzi di Roth il senso di colpa si trasforma in atto d’accusa e in desiderio di riformare il mondo c’è anche il suo tentativo di riavvicinarsi, come Appelfeld, alla piena comprensione della sua identità cui è sotteso, ancora una volta, un principio umanistico.[3]Lo sfondo decadente della contemporaneità descritta da Roth prevede, perciò, uno spazio per l’immaginazione e per il risveglio delle possibilità: questo luogo fantasmatico si affianca alla narrazione dei fatti (la secca cronaca sempre sostenuta dalla sognante ironia) in modo da portare sulla scena l’attività creatrice di cui è animato: nello Scrittore fantasma, nei corsivi che rendono le parole non dette (le «insidiose fantasticherie», SF, p. 18) di Zuckerman; nel libro più recente, nelle parti da lui dedicate al dialogo inventato tra lui e lei. Tale fervente esercizio creatore non è che la trascrizione dei propri desideri e costituisce anch’esso una porzione di realtà, anche quando non riesce in alcun modo a influire su di essa. Nondimeno, realtà e desiderio sono dotati dello stesso passo e della stessa «turbolenza» (SF, p. 27). Ne viene fuori una serie di momenti di instabilità della storia; momenti fatti di chiarezza e di confusione che contribuiscono alla comprensione dell’insieme, benché non si tratti che di lampi di follia. In ciò che Roth, nello Scrittore fantasma, definiva «follia dell’arte» (SF, p. 63) si ritrova l’equilibrio di quella realtà non scritta che scappa da tutte le parti, che è, questa sì, inspiegabile e assurdamente sproporzionata e che è necessario tradurre in scrittura affinché se ne possa avere una più esatta cognizione. Non mera invenzione, dunque, ma passaggio, traduzione che presume la vita reale: nei romanzi di Roth (e non soltanto in quelli di cui si scrive qui) esiste una relazione vitale tra la follia dell’arte e l’immaginazione; si tratta di una connessione che resta ben al di là della semplice creazione di storie proprio perché è una pratica concepita come spontanea, concitata e naturalmente connessa alla realtà e che deve basarsi sull’esercizio della passione dello scrittore e, quindi, sul dubbio e sulla possibilità che da questo sorgono. È come se Zuckerman bramasse una seconda esistenza alla stessa stregua del modo in cui Amy Bellette («la grande desideratrice», SF, p. 120) imita l’arte del grande scrittore spacciandosi per Anne Frank. Entrambi desiderano una seconda possibilità laddove l’unica accordata loro ha mostrato i suoi limiti e si sta esaurendo: questo piccolo e miracoloso incantesimo (che Roth mutua dalle riflessioni sull’arte che concludono un racconto di Henry James) passa attraverso l’immaginazione e le sue impreviste conseguenze. La realtà viene risucchiata dalle storie che Zuckerman ha sviluppato su Amy e che ella stessa ha costruito: viene, cioè, assorbita nel non esistente, tirata fuori dal non vissuto (cfr. SF, p. 141), da tutto ciò che, non conosciuto, si riesce a scoprire con l’immaginazione.Zuckerman, cinquanta anni dopo, ha smesso di vivere nel presente («io ero ormai semplicemente uno spettatore e un outsider. Io non mi intromettevo nel dramma generale, e il dramma generale non s’intrometteva nella mia vita privata», FES, pp. 81-82) e, «mentalmente in folle» direbbe Conrad, si è ormai trasformato in Lonoff stesso: tentato dall’idea di non pubblicare più, si è ritirato nella sua «capanna» nei Berkshire, da dove può «restare in America senza più assorbire l’America dentro di [sé]» (FES, p. 61). Tra le sbarre di questa gabbia (come per Lonoff «aver osato credere che gli era permesso riscrivere un paragrafo cinquanta volte al giorno e intanto vivere in qualcosa di diverso da una gabbia», FES, p. 20) passa, inattesa, l’insensata speranza di risolvere i problemi di impotenza e di incontinenza che lo affliggono: illusione che lo induce a tornare a New York e a riconsiderare l’opportunità di superare quel limite; la senile soluzione di lasciar perdere è soppiantata, insomma, dall’emergere di una nuova virilità di mente e di spirito. E allora il fantasma esce di senno nel momento in cui – come nell’esempio (emblematico per Roth) del capitano della Linea d’ombra – conosce il dramma che i giovani vivono quando «cominciano a entrare pienamente nella vita» (FES, p. 105), comprendendo, altresì, che «questi momenti di follia non capitano solo quando si è giovani» (FES, p. 113).Immaginare di sposare Anne Frank era stata una di queste azioni ed era anche la risposta all’accusa lanciata a Zuckerman (e al Roth dei racconti di Addio, Columbus) di essere incapace di comprendere le ragioni e i costumi del popolo ebraico. Registrare, oggi come allora, una cosa che non è mai accaduta non allevia alcunché; e, tuttavia, è assolutamente indispensabile scriverla (cfr. FES, p. 118-119). Per perorare questo assunto (l’importanza e la grande difficoltà di una letteratura che serva a pensare) Roth si serve ancora una volta di Amy Bellette: Zuckerman la incontra di nuovo, malata, confusa, quasi in uno stato di inettitudine, ma comunque, da «vecchia pazza» (FES, p. 148), in grado di trovare le energie e il senno per redigere una lucidissima lettera (in risposta a un articolo del «Times» su Hemingway) sulla funzione della scrittura, sulla fine dell’era letteraria e contro un certo giornalismo culturale. Come il viso deturpato di Amy è il volto visibile della malattia che alberga nel suo corpo, ciò che scrive rende visibile la trasgressione che incarna. Il ‘lirismo’ del suo male non è mai fine a se stesso: la follia letteraria di Amy, pur essendo vuota, è interamente devoluta alla funzione rivelatrice che detiene in seno all’opera di Roth: ne è – si potrebbe dire – il punto di partenza. La missiva condensa la riflessione iniziata nel 1979 con Lo scrittore fantasma: «C’è stato un tempo in cui le persone intelligenti usavano la letteratura per pensare. Quel tempo – confessa Amy in apertura dello scritto – sta per finire» (FES, p. 149). La causa di ciò è che, nei giornali come nelle scuole e nelle università, la letteratura non viene più considerata come capace di influenzare il modo in cui la vita viene percepita, tanto che è quasi preferibile che oggi di essa non se ne faccia più alcun uso pubblico. Il «vandalismo culturale» condotto da gazzette, periodici e riviste accademiche che si introducono impunemente e con la mano pesante nella vita di chi scrive (perdendo, però, di vista ciò che effettivamente si è scritto) dovrebbe indurre a non parlar più di letteratura e a lasciare così il lettore solo davanti al libro da leggere. Se tipi come Kliman (mossi da una forma meschina di spirito della ricerca) continuano ad agire indisturbati, la letteratura ha perso la sua funzione intellettuale: essa, insomma, o si occupa del modo in cui ciascun essere umano sperimenta la vita, o riguarda il modo esuberante in cui lo spirito di chi scrive si vieta di avere un rapporto pacifico con la realtà, oppure non è.La letteratura (allo stesso modo del desiderio) riguarda, insomma, il dolore di essere presente nel presente: esso è, per Zuckerman, sentire conradianamente la seduzione esercitata da ogni svolta del sentiero, così come, in chiusura di romanzo, «cercare un ruolo nel dramma del [suo] tempo» (FES, p. 219). E, rileggendo il ritratto di Conrad redatto da Bertrand Russell, si ritrova quel rapporto dell’uomo con i propri fantasmi sapientemente evocato da Roth: «egli concepiva la vita umana civilizzata e moralmente tollerabile come un pericoloso cammino su una crosta sottile di lava appena raffreddata che da un momento all’altro avrebbe potuto rompersi e lasciar sprofondare l’incauto in abissi infocati».[4] Il grande culto per l’ordine interiore che, secondo Conrad, può essere sconvolto dalla fatalità, in Roth può essere infranto dal manifestarsi di un desiderio o – se si preferisce – da un momento di follia. Se nel campo della finzione troviamo un modo per sopportare la vita e per ricostruire la sua pluralità, allora possiamo anche trovarvi l’accettazione della morte. Secondo Roth si tratta di un passo indispensabile da compiere in un’epoca in cui si deve fare i conti con un’atmosfera psicologica diffusamente ansiosa e stagnante.Superare la linea d’ombra, così, significa proprio riunire la realtà interiore (per esempio, quella tratteggiata nei dialoghi immaginari di Zuckerman) e quella esteriore: se ne trarrà un equilibrio provvisorio che si nutre della conversazione come della sottoconversazione e che consente una nuova presa sulle cose e permette di aggirare le limitazioni imposte sulla verità. Nel perseguire tale fine, la letteratura potrebbe molto se non fosse ridotta a semplice pratica evasiva o, come nell’esperienza di Lonoff, a egoistico tentativo di realizzare le proprie ambizioni sul versante oscuro e limitato di un esercizio di scrittura quasi autistico. E, allora, superare la linea d’ombra vuol dire anche apprendere la radice terrena, umile, della realtà e accettare che dietro il limite delle tenebre non c’è nulla. Roth distilla un carattere umano universale: quello di un uomo diviso, ma anche legato alle proprie origini; un uomo impegnato, ma anche paralizzato dal senso imposto dalla cultura cui appartiene.È evidente che il termine fantasma suggerisca l’irrisolta opposizione che nei romanzi di Roth vige tra immaginazione e realtà. Il fantasma che esce di scena riguarda sia il modo in cui il desiderio inconscio viene appagato (in Lonoff, ad esempio, nell’elaborare cinquanta versioni del medesimo racconto; oppure nei lampi di follia di Zuckerman) sia il processo mediante il quale una fantasia primaria (quali possono essere considerate la sintomatica identificazione di Amy Bellette con Anne Frank e il fatto che Zuckerman si innamori di lei) si manifesta. Nell’uno e nell’altro caso Roth si concentra sul modo in cui il principio di realtà possa essere dedotto tanto dalle illusioni quanto da ciò che passa attraverso il sistema di percezione. Come Freud, Roth non è in grado di riconoscere il carattere conscio, inconscio o subliminale del fantasma: anzi, gioca con il grado di compromissione tra i vari livelli. Questa sorta di indistinzione influisce tanto sul mondo interiore di Zuckerman (l’illusorio soddisfacimento dei suoi desideri) quanto sul mondo esteriore e, dunque, sul suo principio di realtà. Insomma, è certo che Roth consideri la vita fantasmatica e la sua impurità come punto privilegiato dal quale valutare la rimozione o il ritorno del rimosso. La nostra vita è interamente modellata da un’attività immaginativa che attrae costantemente a sé il reale. Roth biasima la marginalizzazione della letteratura (avallata, a suo dire, anche dall’ottusità della critica), decretando la fine della funzione della fantasia intesa come messinscena del desiderio: lo fa esemplarmente, sia operando a livello diegetico (sull’alternarsi di testo e ipotesto) sia agendo su un livello metaletterario, mediante il richiamo costante al suo rapporto con la scrittura e al modo in cui questa ha influito sull’allestimento di ciò che psicanaliticamente si potrebbe definire il suo romanzo familiare.
Alessandro Gaudio[1] Da ora in poi, nel riferirmi ai due romanzi di Roth citati più frequentemente, userò le seguenti sigle: SF (Lo scrittore fantasma [1979], Torino, Einaudi, 2006); FES (Il fantasma esce di scena [2007], Torino, Einaudi, 2008).[2] M. Foucault, La follia, l’opera assente, in Scritti letterari [1994], Milano, Feltrinelli, 2004, p. 101.[3] Le due conversazioni sono riportate in Ph. Roth, Chiacchiere di bottega. Uno scrittore, i suoi colleghi e il loro lavoro [2001], Torino, Einaudi, 2004, pp. 3-18 e 19-39.[4] B. Russell, Ritratti a memoria [1956], Milano, Longanesi, 1971, p. 98. Sul modo in cui tale principio si attagli all’opera di Conrad e, nello specifico, alla Linea d’ombra cfr. E.W. Said, Joseph Conrad e la finzione autobiografica [1966], trad. di E. Nifosi, Milano, il Saggiatore, 2008, in particolare pp. 175-204.

venerdì 23 gennaio 2009

giovedì 22 gennaio 2009

MARCHERITA GANERI GdM2009

Margherita Ganeri
Margherita Ganeri insegna Letteratura italiana contemporanea presso l’Università della Calabria e presso il Dottorato di ricerca in «Letteratura italiana, tecniche di analisi e teorie dell’interpretazione» dell’Università di Siena. Essendo stata Visiting Professor presso l’University of Cambridge, dal 2005 è membro del St John’s College e dal 2006 del Lucy Cavendish College della stessa università. Nell’anno accademico in corso è borsista Fulbright presso la Stony Brook University di New York.
Tra i suoi libri: Il “caso” Eco (Palumbo, 1991), «Il romanzo storico» di György Lukács: per una fondazione politica del genere letterario (Vecchiarelli, 1995), Postmodernismo (Editrice bibliografica, 1998), Il romanzo storico in Italia. Il dibattito critico dalle origini al postmoderno (Manni, Lecce, 1999), Pirandello romanziere (Rubbettino, 2001), L’Europa in Sicilia. Saggi su Federico De Roberto (Le Monnier, 2005).

mercoledì 21 gennaio 2009

BEATRICE CIRULLI GdM2009


Beatrice Cirulli

Beatrice Cirulli ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Storia e Conservazione dell’oggetto d’arte e di Architettura. È docente a contratto di Storia della Critica d’Arte presso l’Università della Calabria e continua la collaborazione scientifica e di ricerca presso il Dipartimento di Studi storico-artistici, archeologici e sulla conservazione dell’Università degli Studi Roma Tre. Ha curato varie pubblicazioni scientifiche dedicate alla museologia e alla storia del collezionismo ed è autrice di numerosi contributi sulla pittura di età moderna pubblicati in prestigiose riviste di settore.

ISABELLA CALIDONNA GdM2009

Isabella Calidonna

Isabella Calidonna è nata a Lamezia Terme (Catanzaro, Italia) nel 1981. Ha compiuto i suoi studi universitari a Cosenza presso l’Università della Calabria conseguendo il titlo di dottore (laurea di primo livello) in Conservazione dei Beni Culturali nel dicembre del 2004, e di dottore Magistrale in Storia e Conservazione dei Beni Artistici e Archeologici nel luglio 2007. Nel novembre del 2007 ha vinto il concorso per accedere alla Scuola di Specializzazione in Storia dell’Arte presso l’Università di Siena dove attualmente frequenta il secondo anno.
Nel 2008 inizia la sua collaborazione come curatrice presso la Galleria Quadratureformedarte di Lamezia Terme, dove tutt’ora lavora e per cui ha curato la mostra di Laura Fiume, pittrice, desinger, stilista e ceramista, figlia di Salvatore Fiume, inaugurata nel novembre 2008, e per cui è in procinto di organizzare nuovi eventi.
I suoi campi di interesse sono molteplici, ma presenta una spiccata propensione verso il mondo artistico femminile dal Rinascimento fino alla contemporaneità. Interesse dei suoi studi sono state Sofonisba Anguissola, vissuta in pieno Rinascimento, precorritrice di un nuovo tipo di donna, e di donna come artista, soggetto della tesi di primo livello con la quale è arrivata finalista al concorso “Premio L’Autore” promosso dalla casa editrice MEF – Maremi Editori Firenze;
Diana Scultori, di cui ha studiato diverse incisioni indagando in particolar modo lo scambio culturale tra l’ambiente Mantovano e l’europa del nord. Relazione presentata per la Scuola di Specializzazione in Storia dell’Arte di Siena.
Ha inoltre iniziato da poco una ricerca presso l’Accademia di San Luca, affidatagli dalla dott.ssa Angela Cipriani, su tre figure femminili poco indagate nel panorama accademico tra Settecento e Ottocento: Matilde Malenchini, Bianca Testa e Rosa Mezzera.
Altro suo campo d’interesse è l’Ottocento calabrese per cui sta preparando un contributo al seminario che si terrà nel mese di marzo presso l’Università della Calabria, sul pittore monteleonese Emanuele Giuseppe Paparo, soggetto della sua tesi magistrale. In particolare ha voluto indagare la tappa romana del pittore (1806 – 1809) ed erudito ottocentesco, trait d’union tra la pittura di stampo settecentesco e la pittura neoclassica; si è verificata la veridicità e l’entità dei rapporti intrecciati in quel lasso di tempo e analizzato la richesta di accesso presso l’Accademia di San Luca con una lettera scritta dal pittore e allo stato degli studi sconosciuta.
All’interno del seminario in ricorrenza delle celebrazioni sulla giornata della memoria presenterà un contributo sull’artista di origini ebraiche, nata però in Lituania, Antonietta Raphael, “la scuola di via Cavour” come la definì lo storico dell’arte Roberto Longhi; donna vitale, esuberante, delicata, complicata e coraggiosa. Subì le persecuzioni razziali, ma riuscì a salvarsi,insieme alla sua famiglia, con la fuga nell’agosto del ’39 disperdendo così il suo nome. Attraverso un’accurata ricerca bibliografica ed una ancor di più capillare ricerca archivistica, con la quale si è avuto accesso alla corrispondenza dell’artista e ai suoi diari, si è inteso ricostruire il suo percorso artistico, approfondendo in particolar modo l’evolversi del suo linguaggio, a partire dalle sue prime esposizioni, e analizzando l’arte degli anni 30 e 40, quelli più profiqui dal punto di vista lavorativo, ma anche quelli più drammatici, che esprimono più di tutti nelle sue sculture l’espressione di un disagio.

TERESA CICCIARELLA GdM2009



Teresa Cicciarella


Teresa Lucia Cicciarella (Marsala, 1981) ha conseguito la laurea magistrale nell’anno accademico 2005-2006, discutendo una tesi di Storia dell’Arte Contemporanea dal titolo «Luminosi sensi»: il sondaggio degli Archetipi nell’opera pittorica di Corrado Cagli, dove fra l'altro sono presi in esame i rapporti con le teorie di Jung.
La sua attività di ricercatrice ha come fuoco principale l’arte italiana nel periodo tra le due guerre, con particolare attenzione al contesto artistico degli anni Trenta. Di qui, fra l'altro, l'interesse per Corrado Cagli, cha ha portato a tessere speciali rapporti con lo Studio Cagli (Roma) e gli eredi dell’artista.
Attualmente è iscritta al secondo anno della Scuola di Specializzazione in Storia dell’Arte dell’Università degli Studi di Siena (direttore Massimo Bignardi), con indirizzo Storia dell'Arte Contemporanea. Qui ha avuto fra l'altro modo di approfondire l’analisi dell’opera di Pietro Consagra, con particolare riferimento al progetto di facciata per il Palazzo Comunale di Mazara del Vallo, irrealizzato.
Dal 2008 ha infine stabilito una serie di rapporti di collaborazione editoriale con alcuni enti siciliani, in particolare con l'Ente Mostra di Pittura Contemporanea Città di Marsala e con il Museo Riso - Museo d'Arte Contemporanea della Regione Sicilia

HANNA SERKOWSKA GdM2009



Hanna Serkowska

lunedì 19 gennaio 2009

ALESSANDRA BERTOLE' VIALE GdM 2009


Alessandra Bertolè Viale
Alessandra Bertolè Viale, storica dell’arte, nasce a Varese nel 1975. Studia Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Milano e si laurea in storia dell’arte con Maria Teresa Fiorio, discutendo una tesi in museologia incentrata sui musei americani di arte contemporanea. La tesi – dal titolo “Le nuove cattedrali per l’arte contemporanea. Tre esempi Californiani”- vuole presentare la situazione museale americana partendo dalle sue caratteristiche principali: l’apertura al pubblico e la vocazione educativa, analizzando il rapporto tra collezione e nuove architetture nonché le potenzialità di un sistema di gestione diverso rispetto a quello italiano. Successivamente allieva di Enrico Crispolti e Massimo Bignardi presso la Scuola di Specializzazione in Storia dell’Arte dell’Università di Siena, la sua ricerca si sposta soprattutto sul filone dell’arte ambientale intraprendendo lo studio del memorial di Peter Eisenman a Berlino. Ha collaborato e collabora con diverse istituzioni museali, italiane ed estere, ed Università come Siena e Torino. Attualmente sta conducendo una ricerca sul Parco Nord di Milano e approfondendo la problematica dei memorial legata all’evoluzione del linguaggio artistico e della percezione del ricordo nelle persone. Tiene regolarmente conferenze sui movimenti artistici, sulle principali personalità del Novecento e sui musei .
Tra le principali pubblicazioni:
4 interviste nel libro INCHIESTA SULL'ARTE quattro domande a cinque generazioni di artisti italiani, a cura di Enrico Crispolti, Milano, Electa, 2008.
7 profili artisti nel catalogo Da Balla a Morandi. 94 Capolavori della Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, Gallarate, 2005.
18 profili artisti nel catalogo In Natura X Biennale Internazionale di Fotografia, Torino, 2003.

ALESSIA CERVINI GdM2009

Alessia Cervini
Alessia Cervini si è laureata in Filosofia presso l´Università "La Sapienza" di Roma; ha poi conseguito il titolo di dottore di ricerca in "Estetica e Teoria delle Arti" all´Università degli Studi di Palermo. Attualmente lavora come assegnista di ricerca presso il dipartimento di Filosofia dell'Università della Calabria.
Ha pubblicato diversi contributi in riviste e volumi collettivi e curato la redazione e la postfazione del libro Emilio Garroni, Scritti sul cinema, Aragno, Torino. È autrice del volume S.M. Ejzenstejn. L'immagine estatica, EdS, Roma 2006.

GISELE VANHESE GdM2009


Gisèle Vanhese
Gisèle Vanhese è attualmente titolare di una cattedra di Professore di Prima fascia di Lingua e Letteratura romena alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi della Calabria dove è stata per molti anni Professore di Letteratura francese e dove insegna anche la Letteratura comparata. Si è laureata all’Università di Liegi in Belgio con alcuni membri del Gruppo µ ed all’Università degli Studi di Pisa per diventare in seguito ricercatrice in Filologia romanza alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha sostenuto la tesi di Perfezionamento in Filologia moderna, presso l’Università degli Studi di Roma «La Sapienza», che verteva su « L’opera romena di Paul Celan» ed è stata diretta dai Prof. Aurelio Roncaglia e Luisa Valmarin. Le sue ricerche sono principalmente incentrate sulla poesia romantica e contemporanea in Romania e in Francia. Si interessa a scrittori appartenenti a più lingue e a più culture come Benjamin Fondane, Paul Celan, Panaït Istrati, Nadia Tuéni, Lance Henson. È l’autore di alcuni libri e di numerosi saggi su Eminescu, Lucian Blaga, Yves Bonnefoy, Nerval, Aloysius Bertrand, Benjamin Fondane, Paul Celan, Panaït Istrati, Nadia Tuéni, Lance Henson. Ha organizzato, presso l’Università degli Studi della Calabria, il primo convegno in Italia sull’opera di Benjamin Fondane (Une poétique du gouffre. Sur “Baudelaire et l’expérience du gouffre” de Benjamin Fondane – Arcavacata 30 septembre/1-2 octobre 1999) e ne ha pubblicato gli Atti con Monique Jutrin presso l’editore Rubbettino nel 2003.

domenica 18 gennaio 2009

ENRICO CRISPOLTI GdM2009

Enrico Crispolti
Enrico Crispolti (Roma, 1933) è uno dei più famosi e accreditati storici dell’arte contemporanea. Formatosi a Roma nella scuola di Lionello Venturi, è stato Professore Ordinario in Storia dell’arte contemporanea presso l’Università di Siena, dove ha lungo diretto la relativa Scuola di specializzazione.
Le sue pubblicazioni e le mostre da lui curate ripercorrono sostanzialmente l’intera storia del Novecento italiano, con punte di specifico interesse per Enrico Baj, Lucio Fontana e Renato Guttuso - dei quali è fra l’altro responsabile dei cataloghi generali - per Corrado Cagli, Mirko e Afro Basaldella, come anche per movimenti quali il secondo Futurismo e l’Informale.

LAURA IAMURRI GdM 2009

Laura Iamurri
Laura Iamurri - nella foto (!) - è ricercatrice presso il Dipartimento di Studi Storico-artistici, Archeologici e sulla Conservazione, e docente di Istituzioni di storia dell’arte contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Roma Tre.
Si è laureata in Lettere all’Università “La Sapienza” di Roma, ha conseguito il diploma di specializzazione in archeologia e storia dell’arte presso l’Università di Siena e il titolo di dottore di ricerca in Storia e critica dei beni artistici e ambientali presso l’Università degli studi di Milano.
Si è occupata delle vicende della critica d’arte italiana negli anni che precedono la prima guerra mondiale; delle relazioni che intercorrono fra storia dell’arte e creazione contemporanea nella Francia fra le due guerre; del contesto torinese, con particolare riguardo al ruolo svolto da Lionello Venturi nella diffusione di idee e modelli pittorici d’origine francese. Oltre a saggi e interventi pubblicati sulle riviste specializzate e negli atti di convegni nazionali e internazionali, ha collaborato al volume collettivo Lionello Venturi e la pittura a Torino 1919-1931 (a cura di M.M. Lamberti, Fondazione CRT, Torino 2000), ai cataloghi delle mostre Gli anni di Parigi. Carlo Levi e i fuorusciti, 1926-1933 (Torino, Archivio di Stato, 2003) e Cultura artistica torinese e politiche nazionali, 1920-1940 (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 2004). È autrice della voce Arte in Italia per il Dizionario dell’Olocausto (a cura di Walter Laqueur e Alberto Cavaglion, Einaudi, Torino 2004).
Parallelamente, ha coordinato e svolto ricerche su temi relativi alle storie delle donne: nel 2001 ha curato il volume L’arte delle donne nell’Italia del Novecento (atti del convegno, con S. Spinazzè, Roma 2001). Più recentemente ha avviato un riesame della creazione artistica degli anni ’60 e ’70, con particolare attenzione alla circolazione di modelli visivi e alla critica d’arte di Carla Lonzi (in Donne d’arte, a cura di M.A. Trasforini, Roma 2006). Ha curato la mostra e il catalogo autoritratto / autobiografia (Roma, Museo H.K. Andersen, 2007-2008). Per la rivista dell’Institut National d’Histoire de l’Art (Paris), ha curato una rassegna sui gender studies in Italia (Questions de genre et histoire de l’art en Italie, “Perspective”, 4/2007, pp. 716-721).

ANTONIO SORRENTI GdM 2009


Antonio Sorrenti
Antonio Sorrenti (Cittanova, 1944) - qui in primo piano, con la barba bianca - è Presidente del Centro Studi Triveneto sulla Shoah.
Ormai da oltre 10 anni con il Centro si dedica alla ricerca dei documenti che riguardano le leggi razziali e le loro conseguenze. L’attività di ricerca si è concentrata nel Triveneto e in Calabria. I due territori hanno un collegamento che consiste nel trasferimento degli internati dai campi del Triveneto a Ferramonti di Tarsia, vicino Cosenza, e viceversa.
Dopo alcuni anni di paziente e scrupoloso lavoro, nel aprile del 2004 è stata inaugurata la mostra “Frammenti 1938 -1945” visitata solo nel Veneto da più di 70.000 persone. La mostra raccoglie documenti, immagini e testimonianze sui campi di concentramento veneti. Nel frattempo il lavoro di ricerca è andato avanti con ottimi risultati. Già in programmazione è una seconda mostra, che costituirà il naturale seguito della precedente.
Uno dei cardini della ricerca - e delle mostre - è la necessità di rendere chiara la differenza tra i campi di concentramento "classici", i campi di concentramento provinciale e i campi di sterminio. I primi erano strutture circondate da filo spinato, all’interno delle quali gli internati erano raccolti e tenuti sotto osservazione. I secondi, almeno nella maggior parte dei casi, erano strutture che venivano adattate alla detenzione, come per esempio alberghi, aperte in comuni decentrati rispetto alle grandi vie di comunicazione. I terzi, infine, erano delle vere "fabbriche di morte".
I documenti ritrovati e messi a disposizione soprattutto delle varie scolaresche vanno dai documenti personali come carte di identità e autodenunce a documenti più generali che riguardano le restrizioni di qui gli internati erano soggetti e il comportamento che erano tenuti ad avere nei confronti delle persone e del territorio
Il Centro Studi Triveneto sulla Shoah ha raccolto documentazione su più di 60 campi di concentramento provinciali , attraverso i quali ha raccolto anche una documentazione sul campo di concentramento di Ferramenti. A questo lavoro si è unito anche la scoperta del percorso del convoglio 2 partito da Roma il 18 ottobre 1943. Il treno in questione grazie all’intervento delle crocerossine e dei ferrovieri padovani fu aperto e ai deportati fu dato acqua e cibo. Una donna venne aiutata a partorire e fu prelevato un morto in seguito sepolto al cimitero di Padova. Il 5 novembre del 2003 con la partecipazione della Comunità ebraica di Roma, del Comune di Roma, di coloro che fecero aprire il treno, abbiamo ricordato alla stazione le 1024 persone che con questo treno furono deportate ad Auschwitz. Di loro fecero ritorno a caso solo 15 uomini e 1 donna.
Una parte fondamentale del lavoro del Centro è la didattica nella scuole, che si articola su corsi di vario grado. I corsi, gestiti dallo stesso Sorrenti, si svolgono come normali ore di lezione e si basano sui documenti originali, che i ragazzi possono vedere e toccare con mano. Vi hanno partecipato decine e decine di scuole, per lo più nel Veneto, in Calabria, Sicilia e Basilicata.
Per un errore materiale il nome di "Antonio Sorrenti" è all'inizio comparso nei mezzi di comunicazione della Giornata della Memoria dell'Università della
Calabria come "Antonio Santori". Ce ne scusiamo in primo luogo con l'interessato (PC).

DANIELLE MAZZONIS GdM 2009


Danielle Mazzonis
Danielle Mazzonis è laureata in chimica, ricercatrice nel campo delle risonanze magnetiche nucleari, prima al CNR e poi, con la stessa tecnica applicata a tematiche biologiche, presso l’università di Londra, Queen Mary college.
Dalla metà degli anni ‘80, dopo un soggiorno al MIT, Center for Policy Alternatives, la sua attività di studio e ricerca, svolta presso l’ENEA, è stata rivolta a campi sempre più vicini alle tecnologie di produzione e ai loro rapporti con l’ambiente e la salute. Dal 1993 si è occupata di trasferimento di tecnologie avanzate alle PMI e a settori “innovativi” - quali beni culturali e ambiente -sia in Italia che in contesti internazionali. Dal 1995 al 2002 è stata Presidente-amministratore Delegato dell’Ervet, l’agenzia di sviluppo della Regione Emilia Romagna. Da allora, fino ad oggi, è Consulente della Banca Interamericana di sviluppo (IADB). Dall’agosto 2008 è consigliere del Presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola.
Accanto alla sua attività professionale, Danielle Mazzonis ha pubblicato libri e articoli in Italia e al estero su temi di divulgazione scientifica, di implicazioni sociali della scienza, di trasferimento di tecnologie, di modernizzazione dei settori tradizionali, di sviluppo locale.
Danielle Mazzonis ha ricoperto il ruolo di sottosegretario ai Beni e Attività culturale nel Governo presieduto da Romano Prodi.

AMEDEO PINGITORE GdM 2009


Amedeo Pingitore
Amedeo Pingitore è uno psicologo e psicoterapeuta. Come tale è regolarmente iscritto all’Ordine degli Psicologi della Calabria, facendo anche parte del Consiglio. Dal gennaio 1994 lavora nell’A.S.L. n. 4 di Cosenza in qualità di psicologo dirigente di primo livello; presta inoltre servizio presso il Dipartimento di Salute Mentale (CSM) di Rende, dove ha anche funzioni di supervisore e tutor per i tirocinanti pre- e post- lauream. Per circa dieci anni è stato Consulente Tecnico e Perito presso il Tribunale di Cosenza. Per circa tre anni, a partire dal 1991, ha collaborato con l’Università della Calabria, in qualità di ricercatore presso l’Osservatorio sulla Mafia.

FRANCESCO FERRETTI GdM 2009


Francesco Ferretti
Francesco Ferretti è professore associato di Filosofia e teoria dei linguaggi presso l’Università Roma Tre. I suoi interessi di studio riguardano l’analisi della mente e del linguaggio in una prospettiva cognitiva. La sua attività di ricerca riguarda l’analisi deii processi di produzione-comprensione linguistica, lo studio delle rappresentazioni mentali, l’origine della mente e della cultura in un’ottica evoluzionistica e naturalistica. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana, Roma-Bari, Laterza, 2007; Blindness, Visual Content e Neuroscience, «Reti, Saperi, Linguaggi», n. 2, pp. 118-135, 2008; Linguaggio e natura umana, «Prometeo», 103, pp. 42-51, 2008.

MARILENA PARLATI GdM 2009


Marilena Parlati
Marilena Parlati è Professore associato di Letteratura inglese presso l’Università della Calabria. Dopo essersi a lungo occupata di teatro giacomiano e di trattatistica comportamentale della prima età moderna, ha iniziato, da qualche anno, a studiare la letteratura britannica del secondo Ottocento in una prospettiva legata ai cultural studies e alla thing theory: è in fase di stesura una monografia dal titolo Oltre il moderno: orrori e tesori della fin de siècle, che indaga i modi attravero cui il romanzo gotico, occulto e d’avventura si relaziona con i flussi di oggetti archeologici e, più in generale, esotici da e verso le colonie. Con Nicholas Daly (University College, Dublin), ha curato il numero 2, 2005 di Textus, rivista ufficiale dell’Associazione Italiana di Anglistica, che ha come titolo The Cultural Object. Maps, Memories, Icons. Con Eleonora Federici, sta curando il volume Locating Subjects. Soggetti e saperi in formazione. Ha iniziato anche a occuparsi di questioni postcoloniali, particolarmente in connessione con l'Australia, pubblicando saggi sulle riappropriazioni della storia e del canone in David Malouf (Remembering Babylon, An Imaginary Life), su 'etnicità' e percorsi autobiografici nell'Australia contemporanea (R. Cappiello, E. Di Stefano, L. Brett). Ha fatto parte della Steering Committee del 1st Imagined Australia Research Forum, Monash University, Prato Centre, maggio 2007; fa parte della steering Committee per Imagined Australia 2 (Bari 2009). Sta organizzando, in collaborazione con AILAE, la prima Summer School in Cultural and Critical Studies, Unical, 21-27 giugno 2009